Il Paese delle troppe resistenze

di Dino Perrone


 


In Italia tutte le riforme vengono prese a colpi di maggioranza. Questo per  un ritardo culturale che impedisce di affrontare le questioni coltivando una idea di sistema che unisca e non divida


 


 


Cari associati,


dopo oltre un decennio di attesa, dal primo gennaio scorso è partita la riforma della previdenza complementare per il settore privato.


 


Inserito nel vastissimo corpo dell’ultima legge finanziaria, questo provvedimento, almeno nelle intenzioni, dovrebbe garantire un più roseo futuro previdenziale ai giovani lavoratori italiani.


 


Questi ultimi infatti sono oggi alle prese con un tasso di sostituzione fra i più penalizzanti d’Europa.


 


Il tasso di sostituzione è quel meccanismo che calcola lo scarto fra l’ultima retribuzione e quanto effettivamente percepiranno i lavoratori al momento di andare in pensione.


 


Ebbene, per coloro che entrano adesso nel mondo del lavoro, questo scarto è pari a circa il 50% dell’ultima retribuzione. Con il varo della previdenza complementare ed il decollo dei fondi di settore, questo scarto dovrebbe ridursi portando le future pensioni ad un ammontare pari al 70% dell’ultima retribuzione.


 


Questo, ripetiamo, almeno nelle intenzioni. Ma sappiamo che di buone intenzioni è lastricato l’inferno, e soprattutto  che la vita politica italiana non somiglia affatto ad un paradiso in terra.


 


E non a caso, attorno a questo provvedimento legislativo si sono subito formati due schieramenti contrapposti. I sostenitori a prescindere, da una parte. I critici a prescindere, dall’altra.


Quello che risulta più evidente è che anche in questo caso stenta a farsi strada una idea realmente condivisa.


 


In Italia quasi sempre non si è d’accordo sulla diagnosi. E quando pure accade di essere d’accordo sulla diagnosi, ci si divide sulla cura.


Sembra essere il destino, ma forse è meglio dire il limite, di questo nostro straordinario e frantumato Paese.


 


Un Paese dove accanto a riconosciute eccellenze convivono troppe anacronistiche resistenze. Un Paese sospeso tra massimalismo e riformismo. Un Paese dove al gradualismo si preferisce, a seconda delle stagioni politiche, l’immobilismo o lo strappo furente.


 


E’ questo nevrotico procedere a balzi, senza velocità intermedie, che ci distingue in negativo dal resto d’Europa.


 


In Italia tutte le riforme dei sistemi, da quello del lavoro all’istruzione, da quello previdenziale a quello elettorale, vengono prese a colpi di maggioranza.


Questo è certamente un portato del bipolarismo. Ma è soprattutto il portato di un più vasto ritardo culturale che a troppi impedisce di affrontare i nodi irrisolti che ci sono davanti togliendosi di dosso uno spirito sterilmente ‘antagonista’.


Intendo dire che una classe dirigente realmente all’altezza dovrebbe saper coltivare anzitutto una idea di Paese realmente condivisa. Una idea che unisca e non divida.


 


Questo non vuol dire appianare ipocritamente le divergenze, ignorare le differenze, le storie, le appartenenze. Significa semplicemente guardare oltre i propri orizzonti, anche dal punto di vista elettorale, compiendo scelte magari impopolari ma che siano coraggiose.


 


Il nostro Paese, invece, in troppi casi mostra di mancare proprio di coraggio.


Si preferisce la tattica del rinvio, dell’accomodamento, dell’inseguire il facile consenso per poi lasciare il cerino acceso in altre mani.


Invece questi sono tempi che richiedono enormi dosi di coraggio. A tutti, ma in special modo proprio alla classe dirigente italiana.


E la scelta di maggior coraggio che oggi si pone dinanzi alla politica, l’economia, la cultura, la società ed il vivere civile del nostro Paese è quella di assicurare una effettiva solidarietà tra le generazioni.


 


Il che significa, in buona sostanza, evitare di scaricare i costi del nostro benessere attuale, grande o piccolo che sia, su quanti ci seguiranno lungo i binari della vita.


Significa coltivare la consapevolezza del debito che abbiamo nei confronti della società entro la quale siamo inseriti. Un debitoche riguarda non solo il fronte previdenziale,  ma più in generale la cultura, la conoscenza scientifica e tecnologica, i beni materiali ed immateriali.


 


Un debito che per la Chiesa va onorato nelle varie manifestazioni dell’agire sociale ‘così che il cammino degli uomini non si interrompa, ma resti aperto alle generazioni presenti e a quelle future, chiamate insieme, le une e le altre, a condividere, nella solidarietà, lo stesso dono‘.


 


E qui si arriva a quello che a mio avviso è il vero punto nodale del problema.


L’Italia, in tutti questi anni, non ha ricevuto dalla sua classe dirigente una adeguata educazione alla solidarietà, sia nel campo del lavoro che in quello sociale.


Al contrario le scelte, le omissioni ed i comportamenti del ceto dirigente italiano hanno finito col favorire gli egoismi, individuali e collettivi.


 


Ecco allora spiegato il proliferare delle ‘piccole patrie’, dei micro-interessi, delle difese inutilmente corporative. Ecco il continuo accapigliarsi anche intorno a questioni che dovrebbero unire, dare il senso di una compiuta appartenenza.


Ecco, soprattutto, lo smarrirsi di una idea di Paese che ne tenga insieme le sue diverse anime.


 


Occorre tornare allora alla solidarietà, intesa come estremo senso di responsabilità nei confronti degli altri. Di quelli che ci sono oggi, e soprattutto di quelli che ci saranno in futuro, quando noi non ci saremo più.


Solo così è possibile uscire dalle attuali strettoie, balzare fuori dal pantano delle difficoltà nel quale un po’ tutti ci sentiamo immersi.


 


Altrimenti anche la riforma della previdenza complementare, un po’ da tutti considerata necessaria per la tenuta futura del sistema, rischia di restare l’ennesima incompiuta e di svelare solo i nostri egoismi.



 


 



Dino Perrone
Presidente nazionale ACAI


 



 


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