Costi pesanti e salari leggeri

________________________________di Dino Perrone

 

Archiviato il voto regionale, la politica è chiamata nuovamente a fare i conti con le questioni legate al rilancio del mercato del lavoro. Servono misure finalmente coerenti che abbiano come obiettivo primario la riduzione dell’eccessiva tassazione su impresa e lavoro

Penso che dobbiamo rassegnarci all’idea che, per una settimana almeno, il dibattito politico sarà tutto incentrato sugli effetti del voto regionale. Poi, mi auguro, tornerà il tempo di occuparsi di questioni più a contatto con il vissuto dei cittadini.

Questioni che restano maledettamente urgenti e che, a mio avviso, pesano più di qualsiasi responso elettorale.

Il nostro Paese infatti, nonostante le ricorrenti quanto sbandierate buone intenzioni di quanti in questi anni si sono succeduti alla guida dell’economia e del welfare, continua purtroppo ad essere in corsa per un primato ben poco lusinghiero.

L’Italia infatti ancora oggi resta ai primi posti in Europa per il costo del lavoro, con una media di spesa che oramai ha superato i ventotto euro per ogni ora di prestazione.

Un macigno pesantissimo che nei fatti rende poco attraente, in special modo per gli investitori esteri, il complesso del nostro sistema produttivo.

Un macigno peraltro reso ancora più insostenibile dalla circostanza che è proprio la parte non salariale di questo importo ad essere tra le più alte dell’intero panorama europeo. Parliamo di circa nove euro che vengono destinati a costi che non entrano nella busta-paga dei lavoratori ma che tuttavia incidono pesantemente sui bilanci delle imprese.

Dinanzi a tale perdurante stato di cose sarebbe necessario più che mai invertire questa perversa tendenza, per fare in modo che finalmente si possa essere viaggiatori non più precari del treno della ripresa senza invece rischiare, come oggi, di dover scendere ad ogni fermata.

Costo del lavoro, quindi. Se ne discute da anni senza trovare il bandolo di questa ingarbugliata matassa capace di riuscire ad adeguare la parte non retributiva di tale costo a quella che è la media degli altri Paesi europei.

Si tratta di un tema cruciale intorno al quale si scontano annosi ritardi determinati da politiche troppo “timide” e qualche volta contraddittorie che non sono riuscite ad incidere in profondità. Politiche che, da una parte, non hanno saputo salvaguardare il potere di acquisto dei salari, divenuti nel tempo sempre più “leggeri”, mentre dall’altra non hanno posto le imprese nelle condizioni più favorevoli per reggere un mercato fin troppo volatile sul fronte interno e ferocemente aggressivo su quello estero.

Un doppio danno, quindi. Per i lavoratori e per le imprese. Un danno doppio ed un sostanziale fallimento.

Bisogna rendersi conto che l’eccessiva incidenza del costo del lavoro toglie qualsiasi incentivo alle imprese. A ciò si aggiunge una pressione fiscale che non accenna a diminuire e che si abbatte pesantemente sui lavoratori come sugli imprenditori. Una combinazione di elementi che rischia di tramutarsi in una miscela esplosiva.

In queste condizioni ha quindi quasi del miracoloso l’aumento delle esportazioni registrato dall’Istat nel mese di marzo che certifica un balzo di oltre nove punti percentuali su base annua. A conferma, nonostante tutto, delle grandi potenzialità di un Paese che vuole solo essere messo in grado di riprendere la propria corsa.

Ora che è stato portato a casa il Jobs Act, i cui effetti ambiziosi potranno però compiutamente valutarsi solo nel lungo periodo, forse è il caso di passare ad una seconda fase.

Quella appunto in cui la riduzione della tassazione eccessiva su impresa e lavoro venga vissuta davvero come una priorità qualificante dell’intera azione politica.

Su questo aspetto dovrebbe concentrarsi l’attenzione del governo e delle forze politiche, se ci si vuole adoperare per rendere possibile un duraturo rilancio del nostro mercato del lavoro.

E’ questo il più probante ed urgente banco di prova del governo Renzi. L’occasione per dimostrare che davvero l’Italia, proprio come ama ricordare il premier, “sta cambiando verso”.

E soprattutto che questo verso non conduce alla fine in un vicolo cieco.

 

 

 

Dino Perrone

Presidente Nazionale ACAI