Chiudono le botteghe, aprono i call-center

di Dino Perrone

 


Nell’Italia dello scarso lavoro non si trova adeguata manodopera artigiana. E’ l’ennesimo paradosso di un Paese inchiodato alle sue contraddizioni. Occorre allora avviare una seria analisi sulla qualità e gli indirizzi del nostro sistema professionale ed educativo.


Cari associati,
nella scorse settimane sono passate praticamente senza lasciare traccia nell’opinione pubblica due notizie che, a mio parere, dovrebbero invece continuare a destare profonda preoccupazione circa le sorti future del nostro Paese.
La prima, pure doverosamente pubblicata con grande evidenza sui giornali, riguardava l’impreparazione scolastica dei nostri studenti. Statistiche alla mano, essi sono praticamente gli ultimi in Europa.
Ma nessuno ha mostrato soverchio interesse, ed allarme, per questo dato. E la notizia è rapidamente scivolata nel dimenticatoio. Non a caso, anche in questa campagna elettorale così densa di argomenti, alcuni dei quali del tutto speciosi, praticamente nessun politico ha realmente affrontato il tema relativo al deterioramento del nostro sistema educativo.
Un sistema che non prepara in maniera adeguata, che non ha il coraggio di selezionare, che è attraversato da troppe inquietudini.
L’altra notizia, anch’essa velocemente confinata nello spazio di un trafiletto giornalistico, era relativa alla difficoltà di reperire manodopera artigiana.
Sempre con le statistiche alla mano, in Italia non si trova il 73% dei falegnami, il 70% degli addetti alle confezioni, il 64% dei valigiai, il 63% dei meccanici per le automobili, il 59% di sarti e modellisti.
In tutto, fanno circa 71mila posti nel comparto artigiano che non si riesce a coprire.
La penuria di manodopera colpisce in particolare il Nordest, perennemente a caccia di metà del fabbisogno occorrente. Ma anche nel Sud e nelle isole la situazione non è allegra, mancando in pratica un addetto su tre.
Queste due notizie solo in apparenza paiono scollegate. In realtà sono i due rovesci della stessa medaglia.
Abbiamo una scuola che non indirizza e non forma adeguatamente ed un mercato del lavoro che, di conseguenza, sconta pesantemente l’impreparazione professionale delle giovani generazioni che sembrano interessate non tanto a costruirsi nel tempo una professione oppure un mestiere ma a guadagnare anche poco, purchè questo guadagno sia immediato.
Non è un caso, come sottolineato da alcuni analisti, che siano affollati i call-center e restino vuote le botteghe artigiane. Non è un caso che i call-center prendano il posto delle botteghe.
Tuttavia nei primi non esiste praticamente possibilità di affinare preparazione e conoscenze, per tacere il fatto che spesso si tratta di realtà al confine con lo sfruttamento, mentre nelle seconde si insegna un lavoro che può rappresentare il cemento su cui poggiare la propria esistenza professionale.
Eppure i nostri giovani, usciti dalle scuole, preferiscono imboccare la strada dei call-center, evitando accuratamente di mettere il naso nelle botteghe.
Si tratta di un fenomeno che riflette in pieno il nostro costume sociale. Un costume che ha finito con lo svilire il lavoro manifatturiero in nome di conoscenze teoriche che spesso non trovano riscontro nella realtà del mercato della produzione.
Ecco allora cosa chiedere sin d’ora al Governo che scaturirà dalle urne. Qualunque esso sia, il nuovo esecutivo dovrà mettere all’ordine del giorno il problema della riqualificazione del nostro sistema educativo, puntando seriamente sul merito e ristabilendo anche quel principio di rispetto e di autorità nelle relazioni fra docenti e studenti che oggi, invece, soffre di troppe eccezioni.
E questo nuovo esecutivo dovrà anche rivalutare il ruolo dell’impresa e della cultura tecnica.
In passato gli istituti professionali hanno fornito adeguata manodopera ad un Paese che stava trasformandosi da rurale ad industriale.
Oggi queste scuole tecniche rischiano una crisi di identità, fra licei e lauree brevi. E’ necessario allora rilanciarne la funzione, orientando le giovani generazioni verso quelle professioni dove si profilano reali e durature prospettive di lavoro e di guadagno.
Il nuovo Governo dovrà pertanto rivedere la disciplina dell’apprendistato, alleggerendo le imprese da troppi pesi fiscali che ne rallentano l’azione.
Si tratta di pochi correttivi, ma radicali. E soprattutto indispensabili per restituire capacità competitiva internazionale alle nostre aziende industriali ed artigiane.
Ma qui arriva la domanda delle cento pistole. C’è in giro, oggi, un partito, un movimento, anche solo un singolo uomo politico davvero pronto ad impegnarsi su questi temi ?

Dino Perrone
Presidente nazionale ACAI 


 


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