Tra rancore e paura

________________________________di Dino Perrone

 

 

Nel suo rapporto sulla situazione sociale, il Censis descrive un Paese incattivito nel quale il dividendo della ripresa in atto non è stato adeguatamente suddiviso. Ad aumentare è solo il risentimento generale e l’ansia per un futuro che resta a tinte fosche

Rischia davvero di rovinarci il periodo natalizio, questo cinquantunesimo rapporto sulla situazione sociale del Paese di recente licenziato dal Censis.

E rischia di rovinarcelo proprio perché solleva il velo su molte ipocrisie buoniste e costringe invece a guardarci negli occhi ed a misurarci con una scomoda, livida realtà.

L’Italia è infatti quasi uscita dal tunnel, l’economia ha ripreso a crescere, trainata in particolare dall’industria manifatturiera, dall’export e dal turismo, con performance che in alcuni casi superano anche i numeri della Germania. I consumi, sia pure lentamente, registrano incrementi meno episodici che in passato. Ma tutto questo non impedisce che in parallelo, nel Paese, dilaghi il rancore.

Un fenomeno questo, si legge nel rapporto, che nella nostra società “è di scena da tempo, con esibizioni di volta in volta indirizzate verso l’alto, attraverso i veementi toni dell’antipolitica, o verso il basso, a caccia di indifesi e marginali capri espiatori, dagli homeless ai rifugiati”.

Un sentimento, sostiene il Censis, che “nasce da una condizione strutturale di blocco della mobilità sociale, che nella crisi ha coinvolto pesantemente anche il ceto medio, oltre ai gruppi collocati nella parte più bassa della piramide sociale”.

Il rancore, appunto. L’unica cosa che sembra siano riusciti ad accumulare gli italiani nel corso di questi anni rugginosi.

Un rancore generico verso gli altri.

Un rancore sordo e rabbioso, ma non del tutto immotivato. E’ il rancore di chi è rimasto indietro. Un rancore non certo nuovo, ma che ora investe anche il ceto medio e si fa molto più preoccupante perché in parallelo, come si legge ancora nel rapporto del Censis, “l’immaginario collettivo ha perso la sua forza propulsiva di una volta e non c’è più un’agenda condivisa”.

Il rimpicciolimento demografico della Nazione il cui tasso di natalità è ormai ai minimi storici, la povertà del capitale umano immigrato la cui istruzione terziaria è bassissima perché i più istruiti scelgono altri Paesi, la polarizzazione dell’occupazione che penalizza l’ex ceto medio, la crisi di rappresentanza dei corpi intermedi. Tutti segnali, questi, del dissolvimento in corso del vecchio sistema che però ancora non apre le porte al nuovo. Per meglio dire, non consente ancora di vedere come sarà il nuovo. In tutti i campi.

Ed è chiaro allora come, non essendo stato equamente distribuito il dividendo della ripresa economica in atto, “il blocco della mobilità sociale crea rancore”.

Il Censis lo dice chiaro. Chi stava bene sta ancora meglio, chi stava meno bene sta sempre peggio. L’87,3% di coloro che appartengono al ceto popolare è convinto che sia difficile risalire nella scala sociale ed allo stesso modo lo pensa persino il 71,4% degli appartenenti al ceto benestante. Tutti concordano invece che sia estremamente facile scivolare verso il basso della scala sociale. La paura del declassamento è insomma il nuovo fantasma sociale.

Del resto, sempre per restare sulle percentuali, nel 2016 le famiglie in condizioni di povertà assoluta hanno registrato un aumento del 96% rispetto al periodo precedente la crisi, con un numero di poveri raddoppiato al Sud.

La povertà continua ad allungare la sua ombra inquietante su troppe realtà del nostro Paese.

Un Paese che peraltro, usando uno dei tanti neologismi che caratterizzano da sempre le analisi del Censis, è alle prese con un “degiovanimento” crescente. Già oggi il 22,3% della nostra popolazione ha oltre 64 anni, mentre le previsioni annunciano oltre tre milioni di anziani in più nel 2032, quando saranno oltre il 28% della popolazione.

Questo “degiovanimento” era stato finora contrastato dagli immigrati, ma nel 2016 anche il numero di nascite degli extracomunitari si è contratto, passando da una media di 2,43 figli per donna all’1,97, laddove il tasso di fecondità delle italiane è rimasto sempre di 1,26 figli per donna.

Senza dimenticare inoltre “l’emergenza permanente”, come giustamente la definisce il Censis, delle persone non autosufficienti: oltre tre milioni di persone, pari all’8% della popolazione, che nell’80,8% dei casi hanno più di 65 anni.

E dunque si resta immersi e si invecchia in un contesto problematico di generale di rancore, di nessuna speranza per il futuro, di timore anzi di stare sempre peggio.

Tutto ciò finisce per condizionare pesantemente anche l’offerta politica, ingrossando le fila di sovranisti e populisti.

Uscirne in maniera positiva, riscoprendo le ragioni di una storia condivisa, trovare il collante necessario ad una coesione sociale che oggi è in frantumi non sarà certo facile.

Non sarà facile, né breve. Soprattutto ci vorranno molte mani e molti cuori. E tanta, davvero tanta capacità di ascolto da cui far nascere le necessarie soluzioni.



Dino Perrone

Presidente Nazionale ACAI