Le imprese italiane continuano ad arrancare, mentre la stretta creditizia non accenna a diminuire e la domanda interna non riparte. Tanti nodi da sciogliere, per il governo Renzi. E tanti dubbi su come restituire entusiasmo ad un Paese che resta immobile e sfiduciato
Non mette affatto di buonumore il Rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato nelle scorse settimana dalla Banca d’Italia.
Secondo le stime dell’istituto di via Nazionale, infatti, i prestiti bancari alle imprese continueranno a calare per tutto il 2015, confermando dunque una stretta creditizia che nessuna buona intenzione governativa sembra in grado di riuscire ad allentare.
Ed allora non desta certo sorpresa che sia tornato a scendere, a novembre, l’indice composito del clima di fiducia delle imprese calcolato dall’Istat, passato a 87,7 quando invece era risalito ad 89,1 nel mese di ottobre.
Sempre l’Istat ci informa che anche l’indice del clima di fiducia dei consumatori è diminuito, passando a novembre da 101,3 a 100,2.
Inoltre, il tasso di disoccupazione a ottobre è stato pari al 13,2%, registrando così un aumento di un punto su base annua. Ciò vuol dire che attualmente, nel nostro Paese, ci sono tre milioni e quattrocentomila disoccupati, la maggior parte dei quali ha meno di 25 anni.
Tutti segnali di una congiuntura economica che rimane sfavorevole per le imprese come per le famiglie e che, a questo punto, rischia seriamente di diventare strutturale.
Del resto, la situazione generale è quella che è.
La crisi, con il suo perdurante picchiar duro, ha accorciato notevolmente la vita delle imprese italiane, in special modo di quelle di medie e piccole dimensioni.
Un dato su tutti, relativo al solo settore del commercio. E’ stato calcolato che oltre il 40% delle attività aperte nel 2010, pari a circa 27mila imprese, è già sparito, bruciando così un capitale di investimenti di oltre 2,7 miliardi di euro.
In queste condizioni è molto difficile che torni ad aumentare la propensione ad assumere da parte degli imprenditori. Del resto, con buona pace dei periodici intenti semplificativi che anche questo governo non manca certo di annunciare, fare un qualsiasi tipo investimento rimane operazione oltremodo ardua anche per la persistente imprevedibilità dell’interpretazione delle norme che si susseguono in materia.
Come uscirne ?
Semplificando, certo. Ma non solo.
La ripresa della domanda interna appare infatti ancora molto lontana, specie in assenza di investimenti pubblici in grado di sostenerla e soprattutto se, dinanzi al taglio delle risorse statali, gli enti autonomi territoriali risponderanno non con una seria revisione della spesa ma con l’inasprimento delle tasse locali.
Le prospettive, non solo di medio periodo, restano dunque piuttosto fosche.
Ripeto. Come uscirne ? Cosa fare per restituire entusiasmo ad una società italiana sempre più immobile, sfiduciata, depressa ?
A mio avviso occorre un deciso scatto in direzione del nuovo, in tutti i campi, perché questo nostro Paese è ed appare troppo legato al vecchio, con un ordinamento che impedisce o ostacola fortemente il divenire del nuovo. E’ per questa ragione che se spunta all’orizzonte qualche nuova idea subito si mette in moto ogni genere di particolarismi per impedire che essa cresca.
Ma in tal modo, in assenza del nuovo, il Paese non solo invecchia precocemente ma soprattutto non cresce, non compete, non evolve.
Il nuovo, però, non basta solo annunciarlo. Bisogna favorirlo e praticarlo. Per questo mi permetto di sostenere che c’è ben poco di nuovo nella legge di Stabilità e molto, troppo, di già visto e già sentito.
Deve pertanto aumentare drasticamente la consapevolezza dell’opinione pubblica sull’importanza di varare una politica industriale ed occupazionale di profilo diverso, maggiormente legata alle specificità e vocazioni del territorio ma anche aperta ad ogni tipo di innovazione.
Una politica che rimetta al centro il lavoro ed abbia come priorità la crescita.
Non possiamo continuare a far precedere dal segno meno i dati relativi all’occupazione, alla produzione, ai ricavi ed agli investimenti. La cura dimagrante che questa crisi ha imposto a tanti settori produttivi sta sfibrando il Paese, con effetti deleteri sulla sua stessa tenuta sociale. Lo scollamento fra cittadini e classe dirigente, reso evidente anche dal macroscopico dato sull’astensionismo in occasione delle recenti consultazioni regionali, rappresenta una ipoteca pesantissima sulla nostra tenuta democratica e sui livelli di partecipazione alla cosa pubblica.
Come ho scritto prima, la nostra società è sempre più sfiduciata e depressa. Ma comincia ad essere trafitta anche da punte velenose di rancore che debbono seriamente preoccupare.
Restituire dignità al lavoro e rimettere al centro l’economia reale, a partire dal manifatturiero, è dunque la vera priorità che abbiamo davanti.
Dino Perrone