Restare in famiglia, per necessità e non per libera scelta

___________________________________di Dino Perrone

 
In passato sono stati sbrigativamente definiti ‘bamboccioni’. Ma oggi i trentenni che non lasciano la famiglia riflettono una crisi del Paese che ha radici molto più profonde e diversificate
 
Sono ormai oltre sette milioni i giovani italiani, di età compresa fra i diciotto ed i trentaquattro anni, che vivono ancora in famiglia.
Lo certifica il rapporto annuale dell’Istat, che fotografa una situazione in netta e preoccupante crescita rispetto al 1983, allorquando era solo il 49% dei giovani a restare parcheggiato tra le mura domestiche.
Ma attenzione. Non siamo più alle prese con i ‘bamboccioni’, come qualche anno addietro aveva definito l’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa i figli poco inclini ad abbandonare il nido familiare.
Tutt’altro.
Una lettura meno superficiale dei dati licenziati dall’Istat ci illustra infatti un malessere generazionale dalle mille sfaccettature, che rende estremamente difficile il percorso di quanti vivono lo stare ancora con i propri genitori non come libera scelta ma piuttosto come dolorosa necessità.
La stagione dei ‘bamboccioni’, insomma, se mai c’è stata per davvero, oggi sembra comunque definitivamente tramontata.
I nostri giovani vorrebbero poter uscire dalla propria famiglia di origine, anche magari per crearsene una propria, ma trovano ostacoli di ogni genere.
Tra i motivi di questa permanenza prolungata, l’Istat segnala al primo posto i problemi economici, che costituiscono un freno per il 40,2% dei nostri giovani. Problemi rappresentati in larga misura dalla difficoltà di reperire una abitazione adeguata alle proprie esigenze e di trovare un lavoro stabile.
Seguono poi quelli legati alla necessità di proseguire negli studi (34%).
A conti fatti, quindi, solo un terzo dei nostri giovani riconduce la convivenza in famiglia ad una propria precisa, consapevole e libera scelta personale.
Altro che ‘bamboccioni’, insomma. La gran parte dei giovani resta ancora in famiglia semplicemente perché non ha i soldi per andarsene.
Non siamo più alle prese, come forse a qualcuno ha fatto comodo pensare, con dei giovani riluttanti ad assumersi le proprie responsabilità. Abbiamo a che fare, piuttosto, con una generazione alla quale stiamo derubando la possibilità di crescere, di misurarsi con la realtà, di recitare la propria parte sul palcoscenico della vita.
Siamo insomma dinanzi ad una vera e propria emergenza che da economica sta diventando esistenziale e con la quale saremo sempre più chiamati a fare ruvidi conti.
E’ interessante notare come l’uscita dalla famiglia venga rinviata più dai ragazzi che dalle ragazze. Sempre l’Istat ci informa infatti che, tra i trenta ed i trentaquattro anni, un terzo degli uomini vive ancora in famiglia contro invece appena un quinto delle donne.
Tuttavia la disoccupazione femminile, già alta, ha registrato in questi dodici mesi una ulteriore impennata.
Dati, questi ultimi, all’apparenza controversi ma che fotografano alla perfezione un Paese contraddittorio. Un Paese nel quale c’è stata una perdita netta del reddito disponibile ed una contrazione dei consumi, con un prodotto interno lordo che ha registrato la più vistosa caduta tra le principali economie europee.
Un Paese che ha bisogno di investire ma che registra  il taglio di oltre centomila posti di lavoro.
Un Paese che vuole ripartire, ma che non si decide a cambiare marcia.
Il dato più inquietante, nella mole delle statistiche fornite dall’Istat, riguarda il fatto che nel 2009 oltre due milioni di giovani non hanno né lavorato né studiato e che, sempre nell’anno scorso, la media di abbandono degli studi senza un diploma di scuola superiore nel nostro Paese è stata superiore di oltre quattro punti rispetto a quella dell’Unione Europea.
 ‘Nessun titolo di studio sembra essere stato in grado di proteggere i giovani’, recita in proposito il rapporto dell’Istat che invita ad ‘investire di più nel capitale umano, nel lavoro, nell’università, nella scuola e nella formazione’.
Un invito che facciamo nostro. Anzi, per meglio dire, un invito che è il nostro.
Da tempo infatti l’Acai concentra la propria attenzione sui temi della formazione e del capitale umano come elementi indispensabili per garantire l’uscita dal precariato nel quale sono immersi larghi strati della società italiana. Una preoccupazione, la nostra, che trova sempre più spesso allarmanti riscontri statistici.
Si dice che i giovani rappresentano le frecce pronte a scoccare verso il futuro. Ed è vero.
Ma per far partire le frecce occorre che l’arco sia adeguato.
E l’arco del nostro Paese, purtroppo, oggi appare piuttosto malmesso.

 


Dino Perrone
Presidente nazionale ACAI 

 

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