Perchè in Italia laureato rischia di far rima con disoccupato?

___________________________________di Dino Perrone

 
Chi esce dalle università italiane rimane per troppi anni in mezzo alla strada. Tutto questo mentre le  imprese richiedono figure professionali che non sempre il sistema scolastico riesce a garantire. Evidentemente qualcosa non funziona…
 
Archiviato il risultato delle elezioni amministrative, con la solita estenuante quanto sterile esegesi interpretativa su cosa hanno voluto realmente dire gli italiani con il loro voto, il Paese si ritrova a fare i conti con la ruvida realtà di cifre economiche che continuano ad essere non certamente brillanti.
Negli ultimi dodici mesi è infatti calata drammaticamente l’occupazione ed è aumentato il tasso di inattività.
In un anno, in particolare, sono stati persi 430mila posti di lavoro mentre la disoccupazione ha raggiunto l’8,6%.
Lo dicono gli studi dell’Istat che ci descrivono una Italia al passo ridotto, dove le occasioni di lavoro stanno diventando sempre più rarefatte, mentre chi non è occupato sta cominciando a rinunciare persino a cercare di diventarlo.
Ad essere colpito dalla crisi è in special modo il settore industriale, mentre l’area geografica più in sofferenza è ancora una volta rappresentata dal Mezzogiorno.
Secondo alcuni ambienti della Confindustria, il calo di fatturato delle aziende italiane si attesta attorno al 40% e la ripresa comincerà a riverberare i suoi positivi effetti non prima di due anni.
Sostanzialmente niente di nuovo. La crisi, insomma, continua. E picchia duro sempre negli stessi punti. Una crisi che da finanziaria è diventata del lavoro. Una crisi che richiede una unità di intenti tra le forze politiche che, al momento, si stenta ad intravedere.
Una crisi, ed è questo il punto che mi preme sottolineare in questa sede, che complica maledettamente lo stesso rapporto tra mondo dell’istruzione superiore e quello del lavoro.
Ad affermarlo è il dodicesimo rapporto sulla condizione occupazionale elaborato da AlmaLaurea, la banca dati cui aderiscono sessanta atenei italiani. Da questo studio è emerso quanto risulti difficile trovare lavoro per i laureati, indipendentemente dalla sedi di appartenenza e dalla tipologia del diploma. Sono infatti drammaticamente in calo gli ingressi al lavoro non solo di quanti hanno conseguito il titolo in facoltà tradizionalmente poco redditizie, come quelle umanistiche, ma anche di coloro che sono in possesso di titoli più spendibili sul mercato.
Un mercato che stenta ad assorbire i laureati anche a cinque anni dal conseguimento del titolo. E’ questo l’aspetto più marcato di una crisi che ha ormai raggiunto anche il capitale umano meglio formato del nostro Paese.
Questo dato, a mio avviso, è persino più preoccupante di tutti quelli finora analizzati perché riguarda la capacità del sistema italiano di intravedere concretamente il futuro.
Non dare adeguate possibilità a quanti hanno investito sulla loro formazione e preparazione culturale significa, infatti, tagliarsi il terreno sotto i piedi. Tutto questo riguarda in particolare proprio la grande impresa, quella appunto più colpita dalla crisi in atto e che non riesce a favorire l’ingresso nel mondo del lavoro degli studenti migliori.
Non è un segreto per nessuno, infatti, che ormai da molti mesi un po’ in tutte le grandi aziende italiane si stia assistendo ad una contrazione delle richieste di profili di laureati.
Anche questo è un segnale di declino, di rinunzia ad investire sulla ricerca che nel nostro Paese rappresenta appena lo 0,80 del prodotto interno lordo.
Un rimedio c’è. Bisognerebbe incentivare fiscalmente l’assunzione dei laureati, a cominciare dalle piccole e medie imprese.
E’ quanto sostiene appunto AlmaLaurea nel suo rapporto. Ma, soprattutto, è quanto l’Acai suggerisce da sempre alla nostra classe politica, ogni volta che sottolinea come l’ossatura economica del Paese sia rappresentata non tanto dalle grandi concentrazioni industriali ma piuttosto dal reticolo di imprenditorialità diffusa presente sul territorio.
Una imprenditorialità che, per caratteristiche tipologiche e dimensioni, ha fame di competenze tecniche e professionalità adeguate.
Qui tuttavia emerge un altro aspetto, per nulla marginale, del problema inerente il rapporto tra scuola e mondo del lavoro.
Nel mentre, come denunciato dalle ricerche sopra riportate, i laureati stentano a trovare sbocchi occupazionali, le nostre imprese continuano a cercare altri tipologie professionali che il sistema formativo italiano non riesce a sfornare nella misura richiesta.
Non sarebbe il caso di mettersi insieme intorno allo stesso tavolo, imprese ed istituzioni scolastiche, per trovare un punto di incontro che favorisca una intesa ed una sintonia più che mai necessarie fra questi due mondi che invece, troppo spesso, stentano a comprendere le loro reciproche ragioni ?
 

 


Dino Perrone
Presidente nazionale ACAI 

 

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