Il forcone sotto l’albero

___________________________________di Dino Perrone

 

Proteste di tutti i tipi hanno scandito la fine del 2013. Un anno attraversato da una crisi economica e sociale che sta minando le basi stesse del futuro di un Paese nel quale è drammaticamente aumentato il numero di giovani che non studiano né lavorano

Sono festività  del tutto particolari, quelle che vive il nostro Paese.

Festività  attanagliate dalla crisi, scandite dal triste rumore di saracinesche che si abbassano per non riaprire pià¹. Incupite da un panorama che, al Sud come al Nord,   oramai vede interi siti industriali spegnere le luci degli impianti. Smarrite da un senso di crescente spaesamento.

Festività  nelle quali accanto al tradizionale abete della festa fanno capolino i forconi di una diffusa e generalizzata protesta.

In queste condizioni festeggiare risulta oggettivamente difficile, per le famiglie come per le imprese.

La crisi economica è sempre pi๠una crisi sociale, di sistema. Ed il distacco tra cittadini e classe dirigente è ogni giorno pi๠marcato. Un distacco nutrito da un rancore sordo, a lungo covato sotto la pelle di un Paese oramai sfibrato e senza pi๠alcuna fiducia in coloro che sono chiamati ad assumere le decisioni.

Sono festività  particolari, ripeto. Festività  nelle quali le tensioni sociali rischiano di tracimare pericolosamente, proiettando ombre poco rassicuranti sul nuovo anno.

Abbiamo assistito, in queste ultime settimane, a forme di protesta che hanno radunato negli stessi luoghi soggetti del tutto diversi, dalla casalinga al cassintegrato, dal piccolo imprenditore al lavoratore precario, dagli studenti ai pensionati.

Soggetti diversi, tenuti insieme da una esasperazione crescente e dalle ferite derivanti dalla sensazione di non essere pi๠rappresentati e difesi da nessuno.

L’Italia multiforme che in queste settimane è scesa in strada oppure ha bloccato le vie di accesso alle città , brandendo il tricolore ed agitando in qualche caso non solo metaforicamente i forconi, è una Italia che merita attenzione, che esige di essere ascoltata prima che la protesta assuma derive ribellistiche.

Il problema che attenzione ed ascolto dovrebbero venire proprio da coloro che questa Italia esasperata ruvidamente invita ad andare a casa. Politici, partiti, sindacati.

Una cosa mi sembra certa. Non puಠrisolversi questa crisi semplicemente   pensando di mandare a casa tutti quanti. Anche perché non è poi chiaro in che modo e chi possa arrivare al posto di coloro che dovrebbero andare a casa.

Pur nella legittima protesta, bisogna continuare a saper discernere. Bisogna tentare ancora di distinguere fra buona e cattiva politica. Altrimenti c’è solo il caos.

C’è solo il rischio di una protesta senza qualità , di un cocktail di rivendicazioni, pregiudizi e rancori che tiene insieme quanti sono autenticamente disperati e che hanno ragione a lamentarsi del sostanziale vuoto di idee in materia di crescita con coloro che pensano sia giusto provare a chiudere i supermercati e persino le librerie.

Allora, pi๠che invitare ad andare tutti a casa, è il caso di esigere che tutti facciano finalmente il loro dovere. E dovere della politica è quello di individuare soluzioni, scegliere, decidere. Delineare insomma un futuro.

Ma puಠrealisticamente esserci ancora un futuro per un Paese nel quale oltre il 27% dei giovani tra i 15 e i 34 anni non studia, non lavora e non è in un percorso di formazione ?

Questo raggelante dato fornito dall’Istat ci descrive una condizione nella quale versano attualmente quasi quattro milioni di persone, la maggior parte delle quali concentrate, manco a dirlo, al Sud. Parliamo non solo di giovani con bassissima scolarità  ma anche di quasi due milioni di diplomati e 437.000 persone che hanno nel cassetto una laurea o un titolo post laurea.

Come è possibile, con queste cifre, riuscire ad assicurare al Paese il necessario ricambio generazionale ed una classe dirigente davvero all’altezza ?

Come è possibile, soprattutto, che questa emergenza sociale venga ancora così colpevolmente sottovalutata dal nostro ceto politico ?

Sono proprio queste persistenti disattenzioni, questo perenne volgere la faccia altrove da parte della politica a generare la totale mancanza di fiducia dei cittadini in una reale possibilità  di cambiamento.

La politica, nel suo insieme, deve comprendere che non ha pi๠tempo. Deve comprenderlo adesso, se vuole salvare il Paese e salvare se stessa.

E’ questo l’augurio per il 2014.

Un augurio non tanto per la politica, ma per noi stessi. Per tutti noi. Altrimenti, forconi o non forconi, sono destinati a moltiplicarsi certi preoccupanti segnali di identità  e rivendicazioni corporative in una Italia che ha invece enorme bisogno di coesione e condivisione.

 
Dino Perrone
Presidente Nazionale ACAI