Fare sistema per lo sviluppo del Paese

di Dino Perrone


 Occorre trovare un punto di sintesi capace di aggregare visioni diverse e condurre il nostro Paese oltre le sacche depressive per costruire un futuro all’insegna dell’ottimismo



Cari associati,


le complesse vicende legate al varo della legge finanziaria, con la sua lunghissima scia di polemiche, prese di posizione e contrasti portati anche nelle piazze, hanno confermato quanto sia difficile, nel nostro Paese, arrivare a realizzare obiettivi realmente condivisi.


Eppure una delle espressioni entrate prepotentemente nel lessico politico ed economico italiano di questi anni è: fare sistema.


Lo dicono un po’ tutti. Uomini del governo e della maggioranza, come esponenti delle opposizioni. I vertici della Confindustria come quelli del sindacato.


Il nostro Paese, sostengono anche se con accenti diversi tutti costoro, stenta a fare sistema, a trovare cioè un punto di equilibrio fra interessi differenti per presentarsi, unito e compatto, sugli scenari internazionali.


Fino a quando non esisteva la globalizzazione, potevamo anche permetterci questa sostanziale nostra incapacità di fare squadra, per usare un’altra espressione piuttosto in voga. Oggi non più. Oggi occorre trovare un punto di sintesi capace di aggregare visioni diverse e condurre il nostro Paese oltre le sacche depressive per costruire un futuro all’insegna dell’ottimismo.


Il pessimismo che deprime i nostri consumi, infatti, nasce molto probabilmente proprio dalla paura del futuro, da una sostanziale insicurezza che mescola terrorismo e tensioni internazionali, criminalità e risparmio, lavoro ed avvenire dei figli.


Quanto vi sia di irrazionale in questo pessimismo è argomento da sociologi. Sta di fatto che esso non rappresenta certo il miglior viatico per affrontare una congiuntura internazionale che non favorisce la ripresa economica del nostro Paese.


In questo quadro, appare evidente che il futuro dell’Italia passa attraverso la ricerca e l’innovazione, intesa quest’ultima come capacità di anticipare i bisogni, anche quelli latenti. Chi non innova, infatti, arretra.


Riteniamo allora che siano nel giusto quanti, nell’attuale dibattito sul futuro dell’economia italiana, insistono a porre l’accento sulle carenze e le storture del nostro sistema educativo e formativo. Mancano i maestri, mancano i formatori. Mancano le scuole specializzate. Si investe poco nella ricerca, nell’aggiornamento, nella formazione perenne. Si investe poco nel capitale umano, laddove in altre realtà si impone come centrale proprio questo tipo di investimento. Pensiamo in particolare agli Stati Uniti, dove di certo non mancano adeguati incentivi capaci di attrarre, anche dall’estero, ogni sorta di competenze ed esperienze.


Ma non tutto è nero.


Il nostro Paese, in tanti settori, ha una potenzialità incredibile da valorizzare. Servirebbe allora uno scatto di orgoglio, servirebbe uscire dalla logica del breve termine e favorire quella cultura dell’intraprendere che ha già scritto in passato pagine gloriose della nostra storia artigiana.


Proprio l’artigianato, infatti, attraverso le sue mille battaglie ed esperienze, dimostra come su un grande sogno si può fondare una prassi vincente.


Allargare l’orizzonte della propria bottega, diventare azienda, piccola industria. Misurarsi sui mercati internazionali. La storia del nostro artigianato è appunto basata su un sogno divenuto con tenacia una solida realtà.


Piccoli imprenditori, donne e giovani professionisti dell’artigianato hanno imparato a relazionarsi, si sono messi in rete scambiandosi esperienze e conoscenze, contribuendo ad arricchire il tessuto sociale e produttivo italiano. E lo hanno fatto richiamandosi a quella operosità che permette di fare le cose per bene e che consente di superare ostacoli e ritardi, uscendo appunto dal contingente.


Lo hanno fatto proprio considerando l’innovazione quasi un dovere morale per aumentare la competitività delle proprie aziende, e quindi del Paese.


Bisognerebbe allora tornare, un po’ tutti, a riscoprire la cultura del fare bene. Un tipo di cultura che davvero consentirebbe di fare sistema, di superare gli schieramenti e le contrapposizioni fra destra e sinistra. Non per annebbiarle, certo, perché differenze sostanziali e profonde fra destra e sinistra esisteranno sempre ed è giusto che esistano, per l’indispensabile crescita dialettica della nostra democrazia. Ma appunto per superarle.


I successi internazionali del nostro artigianato dimostrano che solo con prodotti di eccellenza il nostro Paese potrà svolgere un ruolo di rilievo nel mercato globale e difendere un patrimonio ideativo unico al mondo. E qui il discorso ritorna appunto sulla necessità di favorire una sempre più incisiva e perenne formazione professionale.


Ma serve, come sempre, anche e soprattutto una illuminata sponda politica capace di fornire adeguati supporti normativi e regolamentari ad un settore che chiede solo di poter continuare a contribuire alla ricchezza dell’Italia.


La politica, appunto. E’ davvero arrivato il momento che la politica non faccia tanto un passo indietro, come comunemente si dice in certe circostanze, bensì che lo faccia in avanti, esaltando la sua funzione dirigente e di mediazione, riproponendosi come strumento di civile composizione delle diversità. Ricordando appunto che nel nostro Paese non si vive certo solo di continue campagne elettorali.



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