Diario Italiano di Dino Perrone

Alla ricerca di un senso comune

Archiviata la tornata elettorale amministrativa in Emilia Romagna e Calabria, dovrebbe partire ora la più volte annunciata “fase due” del governo in carica. Quella che, negli auspici delle forze che compongono l’attuale maggioranza parlamentare, dovrebbe caratterizzarsi per una serie di interventi in materia di crescita e sviluppo.

Verrebbe da dire finalmente, dal momento che davvero non c’è più tempo da perdere.

Secondo gli ultimi dati, infatti, il peso delle tasse in Italia continua ad essere significativamente più alto della media dei Paesi dell’area euro che è pari al 35,9%. E questa non è certo una notizia confortante.

Un lavoratore con un reddito lordo di 30.000 euro, infatti, nel nostro sistema fiscale deve fronteggiare una tassazione che arriva ormai al 47,9%. In queste condizioni è difficile mostrare qualcosa di più di un tiepidissimo entusiasmo per il taglio al cuneo fiscale varato dal governo Conte proprio nell’immediata vigilia delle consultazione elettorale, taglio che vedrà i suoi primi effetti a partire dal prossimo luglio.

Più che di taglio, si dovrebbe parlare di una leggera spuntatina, ad essere benevoli.

Venti euro al mese in più per chi già prendeva il bonus Renzi, cento euro per tutti gli altri lavoratori dipendenti con redditi fino a 28 mila euro l’anno, che scendono ad 80 per chi guadagna fino a 35 mila euro e che calano ulteriormente, fino ad azzerarsi, alla soglia dei 40 mila euro di reddito. Questo in estrema sintesi il quadro degli interventi.

Ma anche dinanzi a tutto ciò rimane il fatto che la somma delle imposte dirette ed indirette e dei contributi previdenziali che pesa sul costo del lavoro resta, anche dopo questo intervento, largamente penalizzante per l’apparato produttivo del Paese e ci colloca ai margini di qualsiasi serio discorso di duraturo sviluppo. E si tratta di un taglio rivolto ad una platea di oltre sedici milioni di italiani, finanziata quest’anno con tre miliardi che diventeranno cinque nel 2021 quando l’intera operazione andrà a regime. Un provvedimento che per il ministro dell’Economia Gualtieri è strutturale e non sperimentale e che anzi rappresenta “il primo tassello di una riforma per un fisco più giusto ed equo”.

C’è da sperare che i fatti diano ragione all’esecutivo Conte e che ci si trovi davvero in presenza di una inversione di tendenza in grado di agevolare la vita delle famiglie e delle imprese del nostro Paese.

Ci sia consentito, allo stato, quantomeno il beneficio del dubbio. Troppe volte in passato abbiamo dovuto fare i conti con il disincanto provocato da misure annunciate come “svolte epocali” in materia fiscale che, invece, si sono poi rivelate semplici e persino abborracciate correzioni che non hanno scalfito più di tanto il macigno rappresentato dal costo del lavoro. Una “anomalia”, questa, tutta italiana e che rappresenta il freno maggiore all’espansione dell’economia italiana, all’incremento dei livelli di occupazione, al rilancio della domanda interna dei consumi.

Certo non aiutano le fibrillazioni di un quadro politico sempre attento più ai prossimi appuntamenti elettorali che alla ricerca di un senso comune che si stenta ad individuare.

Tuttavia è di palese evidenza che diminuire il costo del lavoro per le imprese significherebbe incentivare l’occupazione ed una minore tassazione per i lavoratori influirebbe positivamente sul loro potere d’acquisto, generando un circolo virtuoso che produrrebbe effetti positivi non soltanto nel mercato del lavoro.

L’obiettivo, il “senso comune” da ricercare dovrebbe essere appunto questo. Avviare meccanismi strutturali di riduzione generale del prelievo fiscale sui redditi di lavoro a cui si accompagnino però misure di sostegno alle imprese per incentivarne la produttività. La strada maestra è solo questa. Le altre sono solo ingannevoli scorciatoie che conducono inevitabilmente in un vicolo cieco.