La mancanza di una autentica visione nazionale aumenta il rischio di declino del Paese. Ma per fortuna ci sono ancora categorie come la nostra che sanno guardare oltre il recinto dei propri interessi.
L’Italia è davvero destinata ad un lento ma inesorabile declino ?
Certo questo interrogativo non rappresenta il modo migliore per avviarsi a celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità.
Ma tant’è. I compleanni, come tutti sanno, non guardano mai allo stato di salute del festeggiato. Arrivano e basta, inesorabilmente.
Ed il festeggiato, vale a dire il nostro Paese, arriva a questo suo significativo appuntamento debilitato purtroppo da una fastidiosa e prolungata febbre.
Anche in queste ultime settimane, infatti, il termometro nazionale ha continuato a marcare segnali preoccupanti.
E non si tratta, stavolta, di riferirsi solo alle periodiche analisi statistiche che descrivono un Paese che ancora non cresce come dovrebbe, che anzi resta sostanzialmente fermo rispetto ad altre ‘locomotive’ continentali. Dove, per fare solo un paio di rapidi esempi, i salari restano i più bassi della media dell’Unione Europea, come sottolineato di recente dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, e la disoccupazione, sempre secondo l’Ocse, nel 2009 è significativamente aumentata rispetto all’anno precedente pur restando al di sotto degli standards europei.
Tutto questo, per finire di sgranare il rosario degli esempi, mentre il costo della vita registra l’ampliarsi della forbice fra l’Italia del Nord, più cara, e quella del Centro-Sud, dove invece restano più abbordabili i prezzi per beni e servizi.
Ma, come detto, non si tratta solo questo.
E’ qualcosa di più profondo e devastante. E’ l’assenza di un discorso generale realmente attento al destino del Paese. E’ la mancanza di una visione nazionale, particolarmente preoccupante alla vigilia dell’attuazione di un federalismo che, assieme a tante cose buone ed opportune, potrebbe, se non correttamente inteso ed indirizzato, far aumentare gli elementi di disgregazione.
Al riguardo, le responsabilità della politica risultano di una evidente gravità.
C’è che, come lo scrittore Sebastiano Vassalli, ha definito la politica italiana ‘una lavagna vuota, specchio e non causa di una crisi che coinvolge tutto l’Occidente’.
Personalmente, questa lavagna la vedo invece sin troppo consumata da un forsennato quanto inutile sfregare di gessetto che l’ha imbrattata con frasi vuote, prive di qualsiasi effetto. Un esercizio retorico inutile che ha fatto allontanare i cittadini e non ha avvicinato la soluzione dei problemi.
Tuttavia
Tuttavia restiamo pur sempre un Paese pieno di risorse ed energie. Un Paese nel quale sono ancora tante, per fortuna, le cose che vanno bene, che funzionano, che inducono ad un ragionato ottimismo.
Penso in particolare a quel reticolo di piccole e medie imprese che tengono in piedi la nostra economia. Non mi stancherò mai di sottolineare l’importanza di queste realtà troppo spesso in passato sottovalutate.
Ed anche in questo caso non si tratta di riferirsi soltanto ai semplici indicatori statistici.
Piuttosto è opportuno fare riferimento, traendone ispirazione, a quella lezione di quotidiana decenza che, in maniera silenziosa quanto efficace, viene impartita dai nostri piccoli imprenditori, dai nostri artigiani.
La loro cultura del lavoro, oserei dire quasi la religione del lavoro che ne ispira gli intendimenti, le azioni, le realizzazioni, rappresenta pur sempre l’antidoto più efficace a quell’Italia irresponsabile, cinica ed egoista che troppo spesso occupa le nostre vite, oltre che le prime pagine dei giornali.
Quando ho la fortuna di potermi recare in qualche antica bottega artigiana, non solo torno a sentirmi a casa mia, ma soprattutto provo l’orgoglio di far parte, come Acai, di una storia di valori ed ideali che rappresenta il meglio della più luminosa tradizione italiana.
Di un Paese, cioè, che è sempre stato capace di esportare una idea, un progetto, una visione.
Un Paese che oggi non solo non vuole arretrare, ma che cerca di riprendere la marcia, di correre di nuovo.
Di tornare a tagliare quei traguardi che solo l’umile forza visionaria dei nostri artigiani hanno reso alla portata di una Italia che, invece, troppo spesso è impegnata solo a farsi inutilmente del male da sola.
Certo questo interrogativo non rappresenta il modo migliore per avviarsi a celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità.
Ma tant’è. I compleanni, come tutti sanno, non guardano mai allo stato di salute del festeggiato. Arrivano e basta, inesorabilmente.
Ed il festeggiato, vale a dire il nostro Paese, arriva a questo suo significativo appuntamento debilitato purtroppo da una fastidiosa e prolungata febbre.
Anche in queste ultime settimane, infatti, il termometro nazionale ha continuato a marcare segnali preoccupanti.
E non si tratta, stavolta, di riferirsi solo alle periodiche analisi statistiche che descrivono un Paese che ancora non cresce come dovrebbe, che anzi resta sostanzialmente fermo rispetto ad altre ‘locomotive’ continentali. Dove, per fare solo un paio di rapidi esempi, i salari restano i più bassi della media dell’Unione Europea, come sottolineato di recente dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, e la disoccupazione, sempre secondo l’Ocse, nel 2009 è significativamente aumentata rispetto all’anno precedente pur restando al di sotto degli standards europei.
Tutto questo, per finire di sgranare il rosario degli esempi, mentre il costo della vita registra l’ampliarsi della forbice fra l’Italia del Nord, più cara, e quella del Centro-Sud, dove invece restano più abbordabili i prezzi per beni e servizi.
Ma, come detto, non si tratta solo questo.
E’ qualcosa di più profondo e devastante. E’ l’assenza di un discorso generale realmente attento al destino del Paese. E’ la mancanza di una visione nazionale, particolarmente preoccupante alla vigilia dell’attuazione di un federalismo che, assieme a tante cose buone ed opportune, potrebbe, se non correttamente inteso ed indirizzato, far aumentare gli elementi di disgregazione.
Al riguardo, le responsabilità della politica risultano di una evidente gravità.
C’è che, come lo scrittore Sebastiano Vassalli, ha definito la politica italiana ‘una lavagna vuota, specchio e non causa di una crisi che coinvolge tutto l’Occidente’.
Personalmente, questa lavagna la vedo invece sin troppo consumata da un forsennato quanto inutile sfregare di gessetto che l’ha imbrattata con frasi vuote, prive di qualsiasi effetto. Un esercizio retorico inutile che ha fatto allontanare i cittadini e non ha avvicinato la soluzione dei problemi.
Tuttavia
Tuttavia restiamo pur sempre un Paese pieno di risorse ed energie. Un Paese nel quale sono ancora tante, per fortuna, le cose che vanno bene, che funzionano, che inducono ad un ragionato ottimismo.
Penso in particolare a quel reticolo di piccole e medie imprese che tengono in piedi la nostra economia. Non mi stancherò mai di sottolineare l’importanza di queste realtà troppo spesso in passato sottovalutate.
Ed anche in questo caso non si tratta di riferirsi soltanto ai semplici indicatori statistici.
Piuttosto è opportuno fare riferimento, traendone ispirazione, a quella lezione di quotidiana decenza che, in maniera silenziosa quanto efficace, viene impartita dai nostri piccoli imprenditori, dai nostri artigiani.
La loro cultura del lavoro, oserei dire quasi la religione del lavoro che ne ispira gli intendimenti, le azioni, le realizzazioni, rappresenta pur sempre l’antidoto più efficace a quell’Italia irresponsabile, cinica ed egoista che troppo spesso occupa le nostre vite, oltre che le prime pagine dei giornali.
Quando ho la fortuna di potermi recare in qualche antica bottega artigiana, non solo torno a sentirmi a casa mia, ma soprattutto provo l’orgoglio di far parte, come Acai, di una storia di valori ed ideali che rappresenta il meglio della più luminosa tradizione italiana.
Di un Paese, cioè, che è sempre stato capace di esportare una idea, un progetto, una visione.
Un Paese che oggi non solo non vuole arretrare, ma che cerca di riprendere la marcia, di correre di nuovo.
Di tornare a tagliare quei traguardi che solo l’umile forza visionaria dei nostri artigiani hanno reso alla portata di una Italia che, invece, troppo spesso è impegnata solo a farsi inutilmente del male da sola.
Dino Perrone
Presidente nazionale ACAI