Un Paese in cui tornare a credere

___________________________________di Dino Perrone

 

E’ questo che vogliono  famiglie ed imprese, sfinite da una crisi economica e di sistema alla quale il nuovo anno è chiamato a dare finalmente una credibile soluzione. Sperando che la politica, nel suo insieme, torni ad occuparsi di problemi concreti e non di consunte alchimie.

 

Emergenze sociali, crescita, lavoro, disoccupazione, forme di rappresentanza. Tutto già  visto e sentito.

Il rischio maggiore che corre l’anno da poco iniziato, percià², è quello di apparire sin da subito come irrimediabilmente vecchio.

Questo 2014, infatti, reca sulle spalle tutto il peso di una crisi di sistema che si trascina irrisolta da troppo tempo. Una crisi che solca già  con rughe profonde i fogli che abbiamo appena cominciato a staccare dal calendario.

Pi๠che annunciare il futuro, dunque, l’anno nuovo sembra irrimediabilmente avvitato sul passato. Stessi problemi, stesse questioni, stessa scarsità  di soluzioni.

Non puಠche far riflettere ad esempio, all’alba già  incupita del nuovo anno, il dato licenziato dal dicastero per lo Sviluppo Economico relativo ai 159 tavoli di crisi ancora aperti che coinvolgono oltre centoventimila lavoratori del settore manifatturiero ed alle 150 aziende in amministrazione controllata.

Segno evidente di una persistente fragilità  complessiva del nostro sistema industriale nel quale non sono certo rari i casi di quanti, in questi ultimi anni, sono drammaticamente passati dall’imprenditoria alla disoccupazione. Siamo un Paese che si è affacciato al 2014 senza avere pi๠voglia di progettare, di pensare al futuro, impegnato com’è a difendersi da un presente sempre pi๠angosciante. Un Paese nel quale la crisi industriale, dei grandi gruppi come delle piccole imprese, sta travolgendo anche i bilanci familiari.

Alle spalle di ogni imprenditore che alza bandiera bianca, infatti, alle spalle di ogni impresa che chiude ci sono centinaia di famiglie che entrano in crisi, che allargano la platea di una fatica di vivere e di un disagio sociale sempre pi๠diffuso e rancoroso.

Famiglie ed imprese continuano a pagare un conto salatissimo, dibattendosi in un labirinto che rischia di chiudere ogni spiraglio alla fiducia, nè si puಠsperare che esse possano reggere ancora a lungo all’urto squassante di una recessione come quella con la quale sono state chiamate a fare i conti.

Come uscirne ? Dovrebbe essere oramai fin troppo chiaro a tutti cosa occorre fare. Sono pi๠che mai necessarie politiche di sviluppo capaci di rimettere finalmente in moto il mercato interno e gli investimenti. Politiche tuttavia non coniugate al futuro ma declinate concretamente sul presente, sull’immediato.

Politiche che rendano abbordabile perlomeno quell’obiettivo minimo di crescita del prodotto interno lordo che il governo in carica stima appena oltre l’uno per cento. Francamente si tratta di una percentuale da prefisso telefonico, non da potenza industriale, ma che tuttavia allo stato neppure è detto si riesca a centrare.

La legge di Stabilità , infatti, non fornisce adeguate rassicurazioni in tal senso, specie nella parte in cui non prevede di trasferire in modo automatico le risorse derivanti da un intelligente taglio della spesa alla riduzione dei prelievi fiscali e contributivi che gravano sul costo del lavoro.

Non a caso, secondo una recente analisi di Confindustria, la classe imprenditoriale italiana si mostra pi๠scettica di economisti e politici riguardo alle prospettive di una ripresa che possa concretizzarsi già  entro la fine del 2014.

Sembra molto pi๠realistico, per quasi due terzi degli imprenditori del nostro Paese, spostare di almeno altri diciotto mesi il traguardo di una risalita che appare sempre pi๠ardua. L’uscita dal tunnel insomma appare lontana. E la luce che periodicamente i politici dicono di intravedere in fondo a questo tunnel, se pure davvero c’è, risulta sempre piuttosto fioca.

Il problema è che se sono chiare le cose che si dovrebbero fare, non altrettanto chiaro è che poi si trovino le persone giuste disposte a farlo.

Persone che con coerenza e tenacia vadano sino in fondo lungo il percorso capace di rendere nuovamente credibile un Paese che, anno dopo anno, risulta sempre meno comprensibile se non addirittura ostile ai suoi stessi cittadini.

E qui entra in gioco l’inadeguatezza della politica. La sua insufficienza, se non addirittura la sua colpevole inerzia. Una politica che in questi anni si è come inaridita, accartocciata come una foglia riarsa. Con il risultato di ampliare il distacco profondo che la gente nutre nei confronti un po’ di tutte le istituzioni.

Una recente indagine commissionata dal quotidiano Repubblica ci dice che quasi metà  degli italiani ritiene che la democrazia sia possibile “anche senza i partiti”. Questo dato dovrebbe scuotere dal torpore quanti hanno responsabilità  istituzionali poiché ci racconta un Paese che comincia a pensare di poter fare a meno delle forme tradizionali della democrazia rappresentativa.

Si tratta di una china pericolosa, da risalire al pi๠presto. E per farlo occorre che la politica ed i partiti, nel loro insieme, abbandonino le consunte alchimie cui ci hanno abituati e tornino ad occuparsi dei problemi concreti.

In fondo, gli italiani vogliono solo un Paese in cui tornare a credere. Spetta a quanti hanno l’ambizione di costituire la classe dirigente il compito di fare in modo che questo desiderio, meglio ancora, questo sacrosanto diritto si trasformi rapidamente in una solida realtà .

Dino Perrone
Presidente Nazionale ACAI