Il nuovo anno si è affacciato su un Paese, il nostro, dalle tempie sempre pi๠grigie, se non addirittura bianche.
Lâultimo dato messo a disposizione dallâIstat ci dice, infatti, che lâetà media della nostra popolazione è di 43 anni, ma che ormai il 20% degli italiani ne ha pi๠di 60 e che gli ultracentenari sono addirittura triplicati negli ultimi dieci anni.
Segno, questâultimo, che da noi si vive senzâaltro pi๠a lungo rispetto al passato. Tutto da dimostrare, perà², è che si viva anche meglio.
Anzi, tantissimi episodi di cronaca che vedono per vittime di abusi e dimenticanze proprio gli anziani inducono a ritenere il contrario e ad abbandonare, quindi, qualsiasi forma di facile ottimismo circa lâeffettiva condizione della terza età nel nostro Paese.
Eâ poi interessante notare che, oltre agli ultracentenari, sono triplicati anche gli stranieri, la cui popolazione residente supera adesso i quattro milioni.
Dinanzi a questi dati, che raccontano di una Nazione nel contempo anziana e multietnica e nella quale gli italiani diminuiscono anche perché fanno sempre meno figli, si appalesa tutta lâurgenza di avviare nuove e pi๠incisive politiche in tema di famiglia, welfare ed accoglienza.
Non possiamo infatti rassegnarci ad essere un Paese che invecchia lasciando le culle vuote. Un Paese che per ringiovanire e crescere demograficamente si affida in larga misura agli immigrati, continuando tuttavia a lasciare questi ultimi ancora molto lontani da un pieno esercizio del diritto di cittadinanza.
Queste politiche, ripetiamo, in tema di famiglia, welfare ed accoglienza sono finora sono mancate. E neppure lâultimo governo, quello nato allâinsegna della sobrietà e guidato da un professor Monti non ancora âsalito in politicaâ ma orgogliosamente ancorato alla propria dimensione âtecnicaâ, ha mostrato di essere adeguatamente attento al problema.
Il guaio è che non siamo solo un Paese vecchio.
Prima ancora che vecchio, siamo soprattutto un Paese sfibrato. Profondamente sfiduciato. Radicalmente disilluso.
Un Paese al quale questo neonato 2013 porterà in dote una pressione fiscale che si attesterà intorno al 44% del Prodotto interno lordo, con un prelievo effettivo per le imprese che in molti casi schizzerà addirittura al 65%. Numeri, tutti questi, che segano le gambe a qualsiasi seria prospettiva di crescita e che alla lunga minano la stessa coesione sociale.
Numeri da brivido che certificano il fallimento di un ceto politico anchâesso oramai precocemente invecchiato sotto il peso della demagogia e del populismo da cui nessuno schieramento puಠdirsi del tutto immune.
Un ceto politico distante dalla fatica quotidiana delle famiglie di fronte alla crisi ed incapace di lenire le ferite profonde che questa stessa crisi ha inferto al sistema imprenditoriale.
Personalmente vorrei vivere in un Paese nel quale, oltre alle persone, riescano felicemente ad invecchiare, nel senso di riuscire a durare sul mercato, anche le imprese.
Oggi avviene lâesatto contrario. Troppe nostre imprese muoiono giovani, alcune già nella culla. Tutte asfissiate da un peso fiscale eccessivo, da un sistema tributario dai tratti bizantini, da una spesa pubblica improduttiva che non si riesce a contenere, da vincoli burocratici che rappresentano tanti ostacoli alla libera intrapresa.
Vorrei vivere in un Paese capace di interventi strutturali importanti, senza accartocciarsi sulla logica del perenne rinvio delle questioni sul tappeto.
Un Paese in grado di favorire una solida politica industriale e pronto ad investire sul proprio capitale umano.
Questo Paese è purtroppo ancora molto lontano dal palesarsi in maniera compiuta.
Câè solo da augurarsi che lâoramai prossimo voto per le elezioni politiche contribuisca almeno a delinearne i contorni in maniera pi๠netta. Câè da confidare, insomma, ancora una volta nella capacità di discernimento di noi italiani.
Se ciಠnon dovesse accadere, questo neonato 2013 si dimostrerà già vecchio come il Paese sul quale si è affacciato. E soprattutto noi continueremo a misurarci con una società che, non avendo memoria per il passato, vive senza identità nel presente e, quel che è peggio, non ha pi๠alcun senso del proprio futuro.
Dino Perrone