Se bisogna ancora scegliere tra maternità e lavoro

________________________________di Dino Perrone

 

Continua a gravare soprattutto sulle donne il peso di una crisi economica ed occupazionale che non sembra aver fine. Lo dimostrano i dati dell’Inps e dell’Istat che dicono quanto sia ancora profondamente ingiusto l’assetto sociale del nostro Paese.

Mettere al mondo un figlio è sempre una ricchezza. Ma in ambito lavorativo, in una società come la nostra, può rappresentare un fattore di rischio, se non addirittura di sopravvenuta povertà.
Non sono parole, purtroppo. Sono dati di realtà.
Secondo l’Istat, infatti, quasi una madre su quattro tra quelle occupate lascia il lavoro nei due anni successivi alla nascita di un figlio.
Un fenomeno che sta registrando un sensibile aumento negli ultimi anni e che rappresenta la spia di un malessere sociale che rischia di slabbrare ulteriormente il tessuto familiare italiano.
Molteplici ragioni sono alla radice di questo fenomeno. Da una organizzazione del lavoro i cui orari sono sempre poco “amichevoli” sino ad una ancora troppo asimmetrica distribuzione delle incombenze familiari tra padri e madri.
Alcune donne lasciano la propria occupazione perché ritengono che, a seguito della nascita di un figlio o di una figlia, le condizioni lavorative non siano più sopportabili e quindi rassegnano le dimissioni con l’intenzione di trovare un’attività caratterizzata da presupposti più vantaggiosi, mentre altre decidono di sacrificare radicalmente il lavoro per la famiglia e per i figli, sentendosi però, a distanza di anni, insoddisfatte e inappagate.
Su tutto ciò grava, praticamente intatta, la difficoltà di conciliare famiglia e lavoro in un tipo di società che continua a comprimere gli spazi di intervento in ambito sociale, costringendo di fatto molte madri a non tornare al lavoro al termine del congedo di maternità e genitoriale.
Non deve quindi affatto meravigliare che l’Italia di oggi sia un Paese con un tasso di occupazione femminile  ancora troppo basso e con un tasso di fecondità addirittura bassissimo. Le due cose, che ad un occhio distratto potrebbero sembrare così distinte e distanti, in realtà  si tengono strettamente insieme, saldandosi in una morsa che rischia di togliere respiro al nostro futuro.
Il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese è infatti tra i più bassi d’Europa e la percentuale si riduce notevolmente nel caso di madri con uno o più figli.
L’indice di occupazione delle donne senza prole è pari al 63,9%, contro il 75,8% della media comunitaria, e decresce con l’aumentare della dimensione della famiglia: le signore con un figlio hanno un lavoro nel 59% dei casi, quelle con due nel 54,1%, quelle con tre o più figli solo nel 41,3%. In tutti i casi si tratta di medie ben distanti da quelle degli altri Paesi europei.
Un recente rapporto dell’Inps ha inoltre calcolato il prezzo che pagano le donne in termini retributivi quando scelgono la maternità. Un prezzo salatissimo che arriva a comportare un taglio del 10% rispetto al salario pre-maternità e che viene a spalmarsi anche negli anni successivi.
Una enormità.
Enormità che nasconde una ingiustizia ancora più sottile. Sempre avendo a disposizione i dati dell’Inps si scopre infatti che le donne che decidono di diventare madri sono, in numero preponderante, quelle titolari di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, a conferma di quanto sia invece più difficile, per una donna con un contratto di lavoro precario oppure a tempo determinato, decidere di mettere al mondo un figlio.
Questo dato statistico conferma che solo chi ha un contratto sicuro può permettersi di affrontare la maternità senza dover temere di perdere il lavoro. Il figlio insomma, in certe condizioni, diventa un “lusso” per pochi piuttosto che una ricchezza per tutti.
Può avere speranza un Paese nel quale la scelta di affrontare una maternità è così pesantemente condizionata da fattori economici ?
Ce n’è abbastanza, ritengo, per sentirsi in obbligo di avviare una riflessione approfondita sui temi dell’attuale welfare, provando a migliorare quello che dimostra di non aver funzionato.
La mancanza di un contesto familiare e culturale favorevole alla conciliazione tra famiglia e lavoro si traduce, come detto, in una bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro e, al contempo, in una persistente rarefatta fecondità.
Tutto questo sta creando non pochi problemi sia per la crescita economica del Paese, sia per i rapporti tra le generazioni.
La strada verso la reale uguaglianza tra uomini e donne nel lavoro è ancora lunga e per raggiungere l’obiettivo sperato sono necessari l’impegno e la tenacia di tutti.
Sarebbe auspicabile un incisivo cambiamento di mentalità della nostra società, specie in quei settori che persistono nel considerare il lavoro qualcosa di prettamente maschile accusando le mamme lavoratrici di abbandono della famiglia poiché non si curano dei figli e della casa, dando troppo spazio a loro stesse.
La conseguenza è che le donne, nel nostro Paese, restano ampiamente penalizzate. E sino a quando saranno costrette a dover scegliere tra la maternità ed il lavoro, non potremo dire di aver costruito una società davvero giusta ed accogliente.

 


 

Dino Perrone

Presidente Nazionale ACAI