Quel tremendo virus che è la sfiducia

Diario Italiano di Dino Perrone

Rischiamo di diventare un Paese che non crede più in se stesso.

A dircelo, neppure tanto in filigrana, è il rapporto annuale dell’Istat licenziato nei giorni scorsi che ha analizzato, elaborando dati provenienti da fonti amministrative e questionari, la risposta data da noi italiani all’emergenza provocata dal Covid.

Altro che uscire “migliorati” dalla pandemia, come si illudeva qualcuno. Siamo sostanzialmente gli stessi di prima, forse persino con qualche ulteriore venatura di disincanto. E gli stessi di prima sono anche i problemi irrisolti sui quali il sistema Paese già inciampava quando all’orizzonte non vi era però alcuna emergenza sanitaria.

Il famoso “ascensore sociale” ha ripreso a muoversi, ma viaggia purtroppo verso il basso, precipitando sul piano inclinato della povertà famiglie monoreddito, persone con un impiego irregolare, lavoratori saltuari, dipendenti in attesa della cassa integrazione e casalinghe.

Ed è davvero preoccupante constatare come l’insufficienza o addirittura la mancanza di redditi certi incida anche sulla possibilità di curarsi. Tutto questo mentre la contrazione dei posti letto negli ospedali porta oggi a contarne appena 3,5 per ogni mille abitanti laddove in Germania se ne registrano otto. Ed è forse questo un dato sul quale riflettere in un periodo di roventi polemiche sulla opportunità o meno di fare ricorso alle risorse dell’Unione Europea per riformare, potenziandolo, il nostro sistema sanitario.

Intanto le aziende continuano a lanciare allarmi, a chiedere di fare presto, di passare ai fatti dopo troppi annunci rassicuranti. Un terzo di loro è a corto di liquidità ed il 12% del totale pensa di dover procedere a dolorosi tagli del personale. In un Paese nel quale oltre due milioni di famiglie già hanno in casa un occupato irregolare, con l’occupazione femminile che sta come di consueto pagando un prezzo altissimo, si rischia di innescare una bomba sociale che potrebbe deflagrare in autunno con effetti devastanti.

Il governo ha oggettivamente un compito difficilissimo da portare a termine. Ma preoccupa il fatto che ancora non abbia preso forma una strategia compiuta, e possibilmente condivisa da tutti i corpi sociali, che abbia l’obiettivo concreto dello sviluppo. Una idea di Paese che vada oltre l’emergenza, che doverosamente si preoccupi non solo di non lasciare indietro nessuno ma che a tutti indichi una strada chiara per la ripresa, il rilancio, il futuro.

Ed eccoci al punto nodale che rischia di trasformarci in una comunità sociale che non crede più in se stessa. Come le persone, anche un Paese comincia a morire quando non riesce ad intravedere un futuro. Quando nel suo corpo sociale s’insinua il tremendo virus della sfiducia.

La sfiducia, una volta annidatasi, è difficile da estirpare. Occorrono unità d’intenti e chiarezza di obiettivi. Occorrono esempi positivi che riportino ottimismo in un Paese che in questa emergenza di sicuro si è mostrato resiliente ma che ora non può continuare a stare fermo. La sfiducia si combatte progettando un futuro migliore, battendosi per realizzarlo e consegnarlo alle generazioni future.

Se così è, c’è un dato che preoccupa più degli altri nel rapporto Istat.

Nei prossimi due anni potrebbe registrarsi una ulteriore contrazione delle nascite in una Italia che è già da troppo tempo uno dei paesi più vecchi al mondo. Secondo l’Istat, più che ad una scelta siamo dinanzi ad “una sorta di rassegnazione di fronte ad oggettive difficoltà” da parte di coloro che non intendono avere figli. Ecco lo scarto più evidente “tra quanto si desidera e quanto si riesce a realizzare”, come si legge nel rapporto.

Ecco, mi permetto di aggiungere, come un Paese lentamente si consegna alla sfiducia.

Non possiamo rassegnarci a tutto questo. Non possiamo rinunciare al futuro. L’Acai, nel suo ambito e con le sue possibilità, continuerà ad incalzare su queste tematiche le forze politiche nella loro interezza. Confidando che anche altri ci seguano sulla medesima strada.