La metafora di un Paese sbilenco

________________________________di Dino Perrone

 

Una ricerca inglese dimostra che l’uso dello smartphone per strada influenza anche il nostro modo di camminare, rendendoci tutti più goffi e traballanti. A dimostrazione di come la tecnologia, quando si impadronisce delle nostre vite, può anche non essere un grande affare

Agosto, tempo di relax.

Una malcerta tregua nei conflitti quotidiani che affaticano l’esistenza di ognuno. Un momento, breve o lungo, in cui provare, almeno provare, a “staccare la spina”. A non esserci per le urgenze della vita. A dialogare anzitutto con se stessi. A riscoprirsi.

Agosto è essenzialmente questo.

Una parentesi dentro la quale, come sotto un ombrello, tenersi al riparo da ciò che invece ci grandina addosso ed appesantisce.

Nulla vieta tuttavia, anche ad agosto, di spulciare qualche notiziola interessante che, nella sua apparente levità, ci dice invece molto su come siano oramai cambiate le nostre abitudini ed il nostro stesso modo di affrontare le cose.

Una di queste notizie è contenuta in uno studio condotto da alcuni ricercatori inglesi dell’Anglia Ruskin University che ha analizzato i comportamenti di chi utilizza lo smartphone mentre cammina per strada.

Una banale curiosità ? Non proprio.

Piuttosto, una ricerca interessante nell’approccio come negli esiti, dal momento che le nostre vite stanno diventando sempre più digitali. Basti pensare che per il 2017 si prevede che saranno inviate ogni giorno quasi duecentosettanta miliardi di e-mail, buona parte delle quali proprio attraverso i cellulari, cui dovranno aggiungersi oltre ventidue miliardi di sms e sessanta miliardi di messaggi mediante Facebook, Messenger e WhatsApp.

I risultati di questo studio, condotto su persone senza problemi neuorologici e muscolo-scheletrici sul cui corpo sono stati sistemati tracciatori oculari e sensori di analisi del movimento, dicono che chi utilizza lo smartphone per strada cambia non solo il modo di camminare ma anche l’approccio dinanzi agli ostacoli fissi, come ad esempio un marciapiede.

L’effetto ha qualcosa di sinistramente comico.

Tendiamo ad ingobbirci, ad essere lenti, ad essere sbilenchi. Mentre senza telefonino la nostra andatura è spedita e senza sbandamenti, con l’utilizzo dello smartphone guardiamo meno per terra ed i nostri passi sono meno “logici”.

L’uso del telefonino, insomma, sta cambiando in peggio il nostro modo di camminare. Il baricentro si sposta in avanti ed il coordinamento peggiora.

Ne risente anche la vista, ovviamente, ed il suo peggioramento influisce a sua volta ulteriormente sulla postura. Un circolo vizioso che conduce al manifestarsi di dolori costanti o intermittenti alla schiena che oramai coinvolgono persino i giovanissimi.

Da qui alla necessità di far ricorso alla rieducazione posturale ed al trattamento osteopatico il passo, è proprio il caso di dire, è davvero breve.

Credo che siamo dinanzi ad un clamoroso esempio di come la tecnologia, quando finisce per impadronirsi delle nostre vite, possa non essere un grande affare.

A ben guardare, l’utilizzo smodato, quasi compulsivo, dello smartphone ha già cambiato non solo le nostre abitudini ma anche il panorama urbano nel quale siamo immersi. Oltre ad essere, un po’ tutti, sempre più connessi ed isolati, rischiamo di finirci addosso l’un l’altro proprio perché intenti a digitare od osservare qualcosa sullo schermo dei nostri cellulari.

Stiamo diventando una comunità che attraversa quotidianamente le proprie città con lo sguardo chino, neppure provando più a sorprendersi per aver scorto tra i palazzi uno squarcio di cielo, una stradina sconosciuta, un geranio sul balcone. Tutto il nostro mondo ci illudiamo possa essere racchiuso in uno schermo a cristalli liquidi.

E’ tutto lì dentro. In quell’oggetto tecnologico che sta diventando sempre più il “soggetto” delle nostre vite. E quando si scarica la batteria diventiamo scarichi, svuotati anche noi.

Questa ricerca, dunque per niente banale nelle sue sottese implicazioni sociali, mi sembra fotografare alla perfezione anche lo stato attuale del nostro Paese.

Un Paese a sua volta lento, sbilenco, ingobbito. Direi persino rattrappito.

Un Paese che non guarda ciò che gli si pone innanzi, ma che preferisce spostare sempre lo sguardo altrove. Un altrove però persino più piccolo delle dimensioni di uno smartphone.

 



 


Dino Perrone

Presidente Nazionale ACAI