In perenne attesa delle riforme strutturali

________________________________di Dino Perrone

 

L’Italia ha ripreso a crescere ma continua a non reggere il passo delle altre economie europee. Un dato che preoccupa e conferma la necessità di superare definitivamente la logica delle misure episodiche e degli interventi “a termine”

Dopo la malcerta pausa estiva, torna ad arroventarsi il clima politico intorno alle misure necessarie per rilanciare il lavoro e, più in generale, l’economia del nostro Paese.
Settembre è infatti il mese in cui entrerà nel vivo il confronto tra i tecnici di Palazzo Chigi per il varo della prossima manovra economica e tra i ministeri competenti ed i sindacati sui temi della previdenza e del lavoro.
Molta carne sul fuoco, quindi. Con il concreto rischio di scottarsi le dita.
L’importante è che si metta un argine, sin da subito, al fiume di promesse che già da qualche settimana scorre impetuoso proprio attorno a questi temi. Un fiume che potrebbe esondare, trascinando a fondo ciò che resta della credibilità del nostro sistema dei partiti.
Ancora più importante è che maturi una consapevolezza generale in ordine alla portata effettiva  della crisi del mercato del lavoro in Italia.
Una crisi, è questo il punto vero, che non può risolversi con interventi estemporanei o con annunci ai quali puntualmente non seguono fatti concreti.
Nelle scorse settimane il ministro Poletti, intervenendo al tradizionale Meeting di Rimini, ha dichiarato che, con gli sconti fiscali allo studio per l’assunzione dei giovani, si potrebbe arrivare alla creazione di trecentomila posti di lavoro nel 2018.
Gli sconti, ha precisato il titolare del dicastero del Lavoro, si tradurrebbero nel dimezzamento dei contributi per i nuovi assunti per i primi 2 o 3 anni con l’obiettivo dichiarato di creare occupazione stabile e non a tempo determinato. E ciò anche attraverso il varo di un vincolo anti-licenziamento per le imprese.
Per arrivare a ciò il governo ipotizza lo stanziamento di una cifra vicina ai due miliardi di euro. Non proprio spiccioli, come si vede, anche se Confindustria li giudica largamente insufficienti sostenendo che  servirebbero invece dieci miliardi nel prossimo triennio.
L’importante è che siano somme spese bene e che davvero abbiano un impatto positivo per rilanciare l’occupazione nel nostro Paese. E tutto questo sempre in attesa del varo di quelle riforme strutturali che, a parere di tanti esperti, sono invece le uniche davvero in grado di assicurare una benefica scossa alla nostra economia.
E la prima, ed a mio sommesso avviso anche la più importante, di queste auspicate riforme rimane sempre quella relativa ad una riduzione permanente e non “a termine” del costo del lavoro.
Una riduzione che non riguardi solo i neo-assunti ma che si rivolga alla platea più ampia possibile, in tal modo mandando definitivamente in soffitta la logica degli sgravi e degli incentivi temporanei che a volte, troppe volte, sembrano legati solo a calcoli elettorali.
Oggi il costo del lavoro rappresenta una zavorra sempre meno sostenibile per le imprese, essendo arrivato a livelli del tutto sconosciuti in altre economie ben più prospere e solide della nostra. Si  calcola infatti che ormai il cuneo fiscale sia arrivato ad oltre il 50%, se nel calcolo si inseriscono anche Tfr ed Inail. Semplicemente una enormità.
Per rilanciare davvero l’occupazione, allora, bisogna avere un orizzonte di lungo periodo e che non sia invece limitato alle prossime consultazioni politiche o amministrative.
Ed in questa prospettiva da “sguardo lungo” si inserisce anche la riflessione sempre più urgente da farsi sul perché, nel nostro Paese, domanda ed offerta di lavoro non riescano ad incontrarsi con la dovuta frequenza.
E’ un problema che sta diventando ineludibile e che ha ben presente lo stesso ministro Poletti quando parla della necessità di intensificare i contatti tra la scuola e le imprese. Contatti che finora, al di là delle buone intenzioni, sono stati largamente insufficienti.
Sta di fatto che le nostre imprese, anche quelle di piccole dimensioni, vanno in cerca di figure tecniche, scientifiche e specializzate, ma i titoli di studio più diffusi in Italia restano quelli legati alle aree umanistiche e politico-sociali.
La conseguenza è che, ad esempio, secondo i dati forniti da Unioncamere una su quattro delle oltre 330mila assunzioni di giovani programmate dalle imprese per i prossimi mesi rischia di non andare a buon fine.
C’è evidentemente qualcosa da correggere e da valorizzare anche nella pluralità dei percorsi formativi.
E c’è da analizzare a fondo il problema del perché l’Italia, anche dinanzi ad una ripresa generalizzata dell’economia internazionale, comunque non riesca a fare tutto quello che potrebbe e dovrebbe, a cagione di un debito pubblico soffocante, di una burocrazia invasiva, di un sistema politico avvitato su se stesso e di un settore bancario che riesce a far circolare poco credito.
Dinanzi ad un quadro simile occorre abbandonare la logica degli interventi a termine, delle misure che tamponano e non risolvono alla radice.
Se non ci si rende conto di tutto questo rischiamo, come Paese, di non cogliere l’occasione offerta appunto dalla crescita dell’economia mondiale e di vivere una ripresa solamente “congiunturale” e non strutturale, come ha ammonito di recente il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.
E soprattutto, agli occhi delle altre economie europee, rischiamo di mostrarci patetici come coloro che si illudono di poter fermare un treno in corsa con le mani.
 

 


 

Dino Perrone

Presidente Nazionale ACAI