Storicamente la spesa pubblica, in Italia, si è sempre rivelata un muro troppo granitico da poter abbattere o quantomeno scalfire in maniera significativa.
Ci hanno provato, soprattutto a parole, tutti i governi che si sono via via succeduti, in particolar modo dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso in poi.
Nessuno ci è riuscito, facendo cioè seguire a quelle parole comportamenti coerenti.
Il risultato è che abbiamo assistito, al di là delle lodevoli dichiarazioni dâintenti, a patetici tentativi di demolire i mattoni della spesa pubblica brandendo di volta in volta non il necessario piccone ma un pi๠innocuo piumino per la cipria.
Ed anche oggi non si intravedono segnali di una qualche inversione di tendenza, nonostante sia finalmente entrata nel comune sentire di tutti gli italiani la necessità di eliminare ogni forma di spreco di danaro pubblico.
Non a caso anche in queste ultime settimane, per ridare fiato allâeconomia reale del Paese, si è preferito agire come di consueto sulla leva fiscale piuttosto che concentrarsi sui tagli alla spesa improduttiva.
Tanto per dire, non giova affatto alle nostre imprese lâinasprimento dellâacconto dellâIres e dellâIrap deciso dallâesecutivo in carica per far fronte al rinvio dellâaumento dellâaliquota ordinaria dellâIva. Si tratta infatti di una misura destinata ad incidere non poco su una liquidità imprenditoriale che è già piuttosto scarsa.
Anche in questo caso, insomma, stiamo scontando la storica quanto persistente mancanza di coraggio nellâaffrontare strutturalmente, una volta per tutte, il nodo della necessaria razionalizzazione della spesa pubblica.
Non si tratta infatti solo di ridurre, ma anche di come farlo. Ci sono segmenti sociali e servizi pubblici che non possono cadere sotto la mannaia di indiscriminati tagli lineari, considerati in un passato ancora recente, se non la via giusta ed efficace, di certo la pi๠rapida.
Per altro verso ci sono invece intollerabili sacche di spreco che non sono mai state toccate da alcun provvedimento governativo e che debbono finalmente sgonfiarsi.
Una cosa, insomma, è snellire una burocrazia elefantiaca quanto opprimente, altra cosa è lesinare sulla spesa sociale e la ricerca.
Mi rendo conto dellâanomalia insita in una coalizione resa necessaria dallâemergenza in cui versa il Paese e che ha finito con il dover mettere attorno allo stesso tavolo di governo forze politiche che, invece, si dichiarano da tempo fieramente alternative. Ma appunto un poâ di coraggio in pià¹, anche in questi tempi così prosaici ed aspri, non guasterebbe.
Infatti rinviare, in politica, quasi sempre vuol dire solo tirare a campare.
I tempi impongono invece al premier Letta di elaborare una politica economica finalmente non incentrata solo sulle tasse. Al nostro Paese servono riforme strutturali e la lungimiranza di spostare le risorse pubbliche da un capitolo di spesa ad un altro.
Altrimenti si continuerà a tirare da una parte e dallâaltra una coperta che sarà sempre troppo corta per coprire le dimensioni di una spesa pubblica che resta sempre troppo larga.
Anche a questo penso si riferisca il ministro dellâEconomia, Fabrizio Saccomanni, quando non perde occasione per sottolineare la necessità di âcreare un ponte verso la ripresa dellâattività economicaâ.
Ma questo ponte puಠcostruirsi e mantenersi ben saldo solo attraverso lâadozione di strumenti di tassazione pi๠lievi sui consumi, sul lavoro e sulle imprese.
Chiedere invece proprio alle imprese di anticipare allo Stato gli importi necessari a tamponare gli effetti del rinvio dellâaumento dellâIva non consente, a mio avviso, di fare uscire dallâangolo la nostra economia.
Sono convinto che il primo ministro in carica abbia ben presente tutto questo. Il problema è che Enrico Letta è costretto a muoversi lungo un sentiero molto stretto, delimitato dai vincoli dellâUnione Europea e dalle pulsioni autodistruttive della sua eterogenea maggioranza.
Ma deve muoversi, con tenacia e determinazione. Deve riuscire a farlo, dal momento che il Paese non puಠconsentirsi una perenne paralisi mascherata dal rinvio dei problemi sul tappeto.
Perché rinviare, appunto, non consente di poter efficacemente governare.